Viaggio in Iran di Mariella De Santis.

Hai letto Lolita a Teheran?


Quando Laura mi chiese se avessi letto il libro di Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, stavamo bevendo un the a casa mia e io non immaginavo affatto che dopo sei mesi sarei andata a Teheran.
Meno che mai avrei potuto immaginare di andare proprio nell’Università in cui gran parte del romanzo è ambientato, a presentare il libro di poesie di un’autrice italiana.
Avevo lavorato lungo tutta l’estate sul libro di Oretta Dalle Ore, Sotto la pioggia scrosciante, approntando una prefazione e dei commenti in prosa sotto ogni poesia contenuta nel volume che, nel frattempo, era stato tradotto in farsi da Pouran Hajeb e Asghar Ebrahimi(Pirooz) grazie ai quali giunse l’invito a parlare del libro e della poesia italiana presso la Facoltà di Italiano della suddetta università.
Intanto, io avevo comperato l’insolito libro della Nafisi. Non un vero romanzo, non un diario, un testo che si può considerare ottimamente facente parte della letteratura documentale. L’autrice, fu una brillante docente dell’Università di Teheran sino all’instaurazione del regime degli ayatollah di cui lei stessa era stata fautrice per riceverne in breve tempo una dolorosa disillusione. Compagni, amici, parenti vessati, scomparsi, torturati ed arrestati e il suo corpo di giorno in giorno costretto a scomparire sotto veli, mantelli. Unica sopravvivenza un periodico, clandestino ritrovarsi di donne che parlano di letteratura.
“Dalla mia poltrona le montagne non si vedevano, però le loro cime, incappucciate di neve anche d’estate, e gli alberi che cambiavano colore con le stagioni si riflettevano nello specchio ovale appeso alla parete di fronte- un bel pezzo antico trovato da mio padre. Grazie a quella prospettiva indiretta riuscivo ancora meglio a convincermi che il rumore non veniva dalla strada, ma da un posto lontano, e il continuo brusio restava l’unico legame con quel mondo che, almeno per qualche ora potevamo rifiutare”.
Teheran è collocata a sud dei monti Alborz, ma curiosamente io ricevevo l’impressione di essere circondata da una catena montuosa, forse per l’effetto dell’imponente monte Damavand, e camminando mi figuravo d’essere al centro di una corona e di camminare sul capo di chi la porta. La luce di cui è soffusa la città è incantevole, morbida e falba, mutevole nel corso della giornata e quando varia di colore, non perde una suggestiva luminosità spesso priva di trasparenza..
Il rettilineo che dall’aereoporto conduce al centro città potrebbe essere quello di Lamezia Terme con le sue poche e garbate palme, ma la luce verde dei minareti, i consecutivi a volte giganteschi ritratti di Khomeini e dell’attuale ayatollah Khamenei richiamano ad una realtà che non è sovrapponibile a nessun’altra. Non basta leggere su una Guida Blu degli anni 60 che la città a quel tempo aveva un milione di abitanti e apprendere da una contemporanea che oggi ne ha oltre dodici milioni per figurarsi l’impatto con una metropoli lontana da iconografie mediorientali. La sorpresa di essere dentro un’architettura di cemento e acciaio quale quella di una metropoli occidentale rendeva inquietanti i ricordi incamerati distrattamente da giornali, telegiornali. Ci si accorge che quando si ha un’idea preconcetta di una realtà, si tende ad attribuire minor valore testimoniale alle immagini documentarie e a pensare che siano particolari, frammenti. Delle immagini, come delle notizie che le accompagnano, incameriamo solo i particolari che possiamo far combaciare con la nostra idea dei mondi lontani dalla realtà a noi prossima.
Il traffico è frenetico e disordinato, l’aria inquinatissima. Si sta fermi in taxi con i finestrini aperti e ci si ritrova a considerare che poi, in fondo, a Milano non si respira così tanto male…
Intanto, avevo già un foulard in testa. Poco prima che l’aereo atterrasse tutte le donne che già non avessero coperto il capo, indossavano il copricapo prescelto. Le hostess lo avevano come parte integrante della divisa e non se ne erano mai private durante il volo. Mi ero informata su come avrei dovuto regolarmi nell’abbigliamento, nei modi di fare e mi pareva tutto molto facile e all’inizio quasi divertente. Capo coperto, soprabito lungo almeno al ginocchio, mai dare la mano agli uomini nel salutare, evitare il contatto fisico.
“Io dissi che la mia integrità di insegnante e di donna era compromessa dall’imposizione ricattatoria del velo, in cambio di qualche migliaio di tuman di stipendio. Il problema non era il velo in quanto tale, ma la libertà di scelta. Mia nonna si era rifiutata di uscire di casa per tre mesi, quando altre leggi l’avevano costretta a toglierselo. Io sarei stata altrettanto tenace nel mio rifiuto di portarlo. Non sapevo che di lì a poco quel rifiuto avrebbe potuto costarmi il carcere, la fustigazione o addirittura la vita.[…]. Adesso che non potevo più pensare a me come un’insegnante, a una scrittrice, che non potevo indossare quello che volevo, o camminare per strada al mio passo, gridare se mi andava di farlo o dare una pacca sulla spalla a un collega maschio, adesso che tutto era diventato illegale, mi sentivo evanescente, artificiale, un personaggio immaginario scaturito dalla matita di un disegnatore che una gomma qualsiasi sarebbe bastata a cancellare.”
Non si può immaginare quanto possa essere difficile cancellare da sé abitudini, autopercezioni. I miei capelli liscissimi facevano di sovente scivolare il foulard dal capo; mi accorgevo di creare imbarazzo e allora con Oretta decidemmo di comperare un mini chador, soprattutto in vista dell’incontro che avremmo dovuto tenere in Università. Lo volevo colorato, lo cercai con Pouran ma fu impossibile trovarne che non fossero neri o marrone. Ne scovai uno carta da zucchero e, imparati i gesti, divenne comodo e soprattutto tranquillizzante accessorio. Il viaggio si è svolto dal 25 al 31 ottobre dello scorso anno. Faceva ancora abbastanza caldo e il capo coperto, il soprabito di lana costruivano intorno al mio corpo una sorta di impalcatura che mi intorpidiva la presenza in pubblico. I miei sentimenti oscillavano tra desiderio di rispettare le altrui consuetudini e il rifiuto di adeguarmi a qualcosa del tutto estranea a me. La mia amica antropologa Vanna, mi scriveva per posta elettronica che non dovevo sentirmi in colpa se non riuscivo ad accettare completamente certe regole, mi spiegava che ci sono reazioni sedimentate nella memoria anche organica che hanno a che fare con i vissuti culturali a cui si appartiene. Il mio amico Ennio, nel corso di una conversazione mi aveva detto che non riusciamo ad immaginare quanto possano sentirsi a disagio coloro che dai paesi musulmani arrivano da noi e devono rinunciare alle proprie abitudini… pensavo a questi due punti di vista diversi e intanto osservavo i volti delle ragazze, dei giovani. Le donne iraniane sono molto belle negli ovali del volto, colori e taglio degli occhi. Difficilmente ne incontri lo sguardo, ma colpisce il loro portamento elegante anche quando sono completamente avvolte nei lunghi chador. Nei centri commerciali si incontravano frotte di giovani, delle ragazze mi impressionava a volte un trucco del viso eccessivo, fin troppo evidente e stridenti meches bionde sui bellissimi capelli neri. Nei negozi vedevo vestiti scollati, o appariscenti, ornati di lustrini, che, mi spiegarono, erano acquistati per le feste in casa. Mi sentivo in colpa per la tristezza che mi provocava questa spiegazione. Avrei voluto che qualcuna mi dicesse: Sono felice così . Ma non ho potuto porre a nessuna questa domanda in modo tanto diretto. Non ho visto giovani allegri per le strade di Teheran. A volte ho riconosciuto occhi annebbiati e un bisogno di fare massa come per non lasciare spiragli alla solitudine. Non ho sentito leggerezza. Lunghe vesti di donne ma spesso anche di uomini, svolazzavano nei passi frettolosi e tutto quel nero tinteggiava le strade fino quasi a sostituirsi ai corpi e gli sguardi severi degli ayatollah che giungevano dai manifesti spesso giganteschi, sembravano spingessero anche me ad affrettare inutilmente il passo. Mi spiegavano che è una città enorme, che tutti corrono, che c’è fretta sempre, ma ero pur sempre in una città del vicino Oriente, non a New York…domande, domande…Tante me ne sono rimaste in gola…
Non vi dirò del canto del muezzin che si leva nell’ora della preghiera né delle luci che verso il crepuscolo si accendono nei minareti effondendo l’aria di bagliore verde e non perché siano elementi privi di suggestione, ma proprio perché è facile immaginare quanta ne abbiano. Vi racconto lo straniamento, il bisogno di stare lì e la voglia di andare via. La difficoltà di capire da vicino quanto invece da lontano sembrerebbe sufficientemente chiaro.
Sono arrivata in Iran durante il Ramadan, il che vuol dire che non si può mangiare o bere per strada sino al tramonto, ma, come prescrive il Corano, chi è in viaggio è giustificato nella deroga al precetto. Questo vuol dire che negli alberghi si può mangiare secondo le proprie esigenze e si possono ospitare anche amici musulmani. Non ho quindi assaggiato i dolci che vedevo nelle vetrine di alcuni negozi, non ho bevuto i succhi di melograno amaranto che facevano mostra da negozi ornati di frutta né assaggiato il pane appena sfornato. Nelle ore in cui avrei potuto acquistarli si rispettava il digiuno, in quelle in cui il digiuno era sospeso, io e i miei compagni di viaggio avevamo già mangiato in qualche ristorante. Ma il dispiacere non era quello di una golosità soffocata, no…mangiare per strada, comperare dove facevano acquisti gli iraniani, mi sembrava che sarebbe servito a mischiarmi un poco, a confondermi, a com-prendere qualcosa - che la mente non riusciva a contenere- attraverso il corpo. Questo mio corpo amico e senziente all’esperienza che a volte capisce la vita prima di ogni mia cognizione.
“<< Insomma, >> proseguì << bisogna proprio che lei venga a insegnare da noi, nell’ultima università veramente liberale rimasta in tutto l’Iran, l’unica che ancora ospita alcune delle menti migliori del paese. Il direttore del dipartimento le piacerà, non è un letterato ma è uno studioso serio.[…] Un brav’uomo …Vedrà che le cose adesso sono cambiate >> insistette. << Sanno quanto vale un buon insegnante.>>.
Credo di aver conosciuto una buona insegnante all’università di Teheran, Nadia Moaveni, una italianista, che molto si era adoprata per organizzare la presentazione di Sotto la pioggia scrosciante, in quanto tradotto dalla sua ex allieva Pouran. Nadia mi appare donna solida e dolce, colta e modesta. Animata da amore per la lingua italiana, per l’Italia, per gli studenti a cui- mi dicono- si dedica con generosità. L’impatto con l’istituzione ed i suoi membri fu inevitabilmente formale, ma proprio in quelle situazioni mi veniva spontaneo porgere la mano per salutare anche agli uomini, come se lì più che mai ci fosse il bisogno di riconoscimento. Qualcuno mi aveva già detto che sembravo una iraniana per i tratti del viso, lì me lo ripeterono in tanti e allora successe una cosa curiosa- un merito della sapienza del soma- cominciai a sentire che avevo qualcosa in comune con quel popolo, con quella terra. Che probabilmente il mio miscuglio di sangue, colori e forme, derivava da quella stirpe per via immemore. E qualcosa finalmente in me si sciolse.
Nella bacheca della Facoltà di Italiano, molti classici, mi pare tanto Verga. Qualche giorno prima della conferenza, il preside di Facoltà ci ricevette nel suo studio. Una vera conversazione persiana, come si legge sulle guide di viaggio, la maggiore attenzione fu rivolta ad Oretta, in quanto poetessa ospite. La conversazione si svolse prima in inglese e poi in francese, poche le domande dirette, grande discrezione, un simulato distacco da parte dell’interlocutore che pareva più una cautela, un riguardo. Immagino che sia chi studi una lingua minoritaria come l’italiano in Iran o il farsi in Italia, sia mosso da un trasporto intenso verso un popolo, una cultura, infatti la sera della conferenza, i tanti giovani erano colti, curiosi, attenti. Per tutti, prima di iniziare, the accompagnato dai dolci tipici con cui si rompe il digiuno al tramonto, nel periodo di Ramadan, di nuovo per me quella sensazione di essere dentro una stanza e non sulla soglia.
Isfahan o, come dice il suo nome, la metà del mondo. È stata l’unica nostra deviazione dalla capitale ed è una delle più belle città che io abbia mai visto. Dodici i ponti magnifici che accarezzano la sua schiena bagnata dal maestoso fiume Zajandehrood. Ecco la dolcezza immaginata in una città persiana, le cupole a mosaici azzurri, blu e verdi delle tre moschee, la Meidun, maestosa piazza che poco alla volta emerge quale ricordo cinematografico dal film pasoliniano Il fiore delle mille e una notte. E una cordialità diffusa, una distensione nel parlare, nello stare per strada che dopo l’impatto con Teheran trovavo balsamico. A Isfahan abbiamo avuto un taxista a disposizione per i tutti i giorni della permanenza, col costo di un percorso lungo in taxi a Milano. Finalmente si parlava con chi si incontrava nel solito buffo miscuglio di lingue che viene fuori quando non si ha nemmeno una lingua in comune. Nei pressi della città visitammo il monastero armeno di Julfa, piccola rispettata enclave cristiana. Esso è in buona parte rifatto ma si presenta con una sua autorevolezza e molti sono i visitatori. Mohamed, il nostro chaperon, voleva mostrarci le cose che più possono colpire l’immaginazione del turista occidentale con l’idea di un mondo magico e misterioso come pure ci portava a fare compere da suoi amici fidati. Un giorno, verso il tramonto, Mohamed si è offrì di portarci in una fabbrica di tovaglie, percorremmo una campagna piatta, attraversata dal fiume, molti venditori improvvisati stendevano a terra carote, patate, verdure, la gente si accingeva a fare compere o preparare da mangiare, molte famiglie sostavano e chiacchieravano in riva al fiume, grossi corvi volavano bassi e gracchianti, l’atmosfera mi ricordava quella del giorno prima di una festa religiosa importante nel sud Italia, tutto era lento, disteso. Arrivammo in uno spiazzo, da lontano avevo intravisto delle tende basse tipo igloo e il nostro taxi si dirigeva proprio in quella direzione, Mohamed ci fece cenno di scendere…eravamo arrivati. La fabbrica era l’accampamento di due tintori, due facce d’uomo che erano sculture umane, c’era una storia addensata nelle rughe, nella pelle di colore stratificato che mi lasciò senza fiato. Una sorta di testata contro un tempo fermo come l’acqua rossa nel grande paiolo di rame a fianco della tenda. La mia guida suggerisce : “generalmente si chiede il permesso ad un iraniano di scattargli una foto, questo viene accordato più che volentieri. La foto risulterà un po’ innaturale, è ovvio, ma è meglio di niente.”, chiesi il permesso al tintore di fotografarlo; non aveva voluto vendermi le sue tovaglie poiché non ancora era finito il processo di tintura ma non mi rifiutò la foto. Il suo volto è una delle cose più belle che ho riportato dall’Iran.
Venerdì 28 ottobre: giorno di preghiera e di solidarietà con la Palestina, per le strade del centro incontrai un esiguo corteo. Qualche ora dopo in televisione venne mostrata la piazza stracolma di manifestanti. Non ero al posto giusto nel momento giusto.
Tornammo a Teheran; gli aeroporti sono luoghi caldissimi. Nei banchi per l’imbarco uomini e donne lavorano fianco a fianco. Gli uomini in maniche di camicia, le donne con camicia, giacca, capo coperto. Questa disparità era per me difficile da accettare; il pensiero del caldo patito dalle hostess mi provocava un disagio fisico.
A pochi metri dall’hotel in cui alloggiavamo, su una parete giganteggiava un manifesto inesistente prima della partenza per Isfahan: una enorme clessidra conteneva nella parte superiore una raffigurazione della terra e in quella inferiore c’era Israele. Campeggiava su tutto una scritta: Sionism is out of the world. Qualcosa di grave stava per accadere in un equilibrio nei fatti mai stato tale.
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La notte della partenza incontrai nella hall dell’albergo la bellissima figura di una affermata attrice francese che molto ammiro per bravura e fascino. Era velata, sorridente, quieta. Mi sembrò di andare via lasciando qualcosa di me. Un presidio d’affetto tra mondi diversi.

Milano 24 febbraio 2006 Mariella De Santis