Un'Anima in Pausa di Maryam FatemiFar
Vincitrice del premio "L'immagine parla"
Era seduta sotto il solito portico che affacciava sulla spiaggia e sul mare; era quasi assente, immersa nei suoi pensieri, viveva surreali mondi, lontani migliaia e migliaia di chilometri dalla sua cosiddetta insignificante realtà di tutti i giorni. Scriveva qualcosa su di un pezzo di carta, velocemente, senza mai fermarsi, quasi in apnea, come se fosse un disturbo compulsivo cui non poteva sottrarsi: “Quale segreto custodisce la mia anima in pausa che volteggia, come una piuma di gabbiano, sul mare dell’amnesia? In quale sperduto angolo dell’oblio le mie emozioni, spente anzitempo, troveranno la loro ragione di essere? Quando, ma quando, l’impaziente piuma dei miei pensieri, affidata da me stessa al vento, si poserà sulla spiaggia della serenità?

Ah, impavido vento, dimmi tu: il mio amato ritornerà mai da me per stringermi ancora tra le sue braccia ed io mai sarò degna del suo amore?” All’improvviso le sue mani rimasero congelate e non ebbero più la volontà di scrivere. Le capitava spesso di scrivere cose che lette, a posteriori, non riconosceva come proprie. Stropicciò la carta e l’affidò al vento che in quell’istante passava attraverso il portico e rimase immobile a guardare il mare.
Sembrava in attesa di qualcosa.
Un piccolo movimento quasi impercettibile attirò la sua attenzione, strinse gli occhi per aguzzare lo sguardo, per vedere meglio la sagoma che a malapena si scorgeva sulla spiaggia. Era la donna di sempre, quella di ieri e della settimana prima e di quella ancora prima. Era lì, davanti a lei: una figura fragile, incerta. Strano, ma riusciva addirittura a sentire il suo respiro. Oltrepassò il cancello e con la paura di sempre scese lungo il piano inclinato, per poi avanzare sulla pavimentazione di legno che si inoltrava sulla spiaggia.
Il giorno non era ancora capace di strappare la notte dal suo sonno e quella donna, continuava a passeggiare, serenamente, lungo la spiaggia.
Il mare aveva già iniziato a ritirarsi nel proprio guscio, lasciandosi alle spalle le sabbie bagnate ancora in balìa del suo ultimo abbraccio. Le conchiglie erano sparse tra i granelli dorati di sabbia, come se fossero i resti di stelle cadenti, spente nel mare, abbandonate sulla spiaggia e dimenticate dal cielo. E quella donna... lei, camminava a piedi nudi sulla sabbia. Un foulard trasparente color turchese contornava dolcemente il suo corpo sinuoso. Sembrava che sentisse freddo, come se la brezza mattutina violasse la sua anima fragile. I suoi capelli lisci, sciolti sulle spalle, ondeggiavano in armonia con i suoi movimenti. Portava un cappello di paglia, che le cadeva ogni tanto sulle spalle, trattenuto da un nastrino bianco al collo. Strano, sul suo viso addirittura si intravedeva un sorriso di beatitudine.
La luce continuava, lentamente, a graffiare la notte. «Mio Dio - bisbigliò Giulia - sta ascoltando le onde». Come se la voce stanca delle onde le stesse bisbigliando note tristi di una melodia d’amore, vissuta e poi perduta.
Ad un tratto la donna si fermò, voltandosi verso il mare rimase fissa a guardare l'orizzonte. La notte tentava inutilmente di ostacolare l'alba, mentre lei impaziente attendeva il sorgere del sole. Con la mano destra tenne fermo sulla testa il cappello di paglia. Fece qualche passo, avanzò nel mare...chiuse per un istante gli occhi come per sentire meglio il freddo tocco dell'acqua ancora ignara della prepotenza del sole... poi, si mise a correre. Slegò il foulard che le avvolgeva deliziosamente il corpo e mentre con una mano tratteneva il cappello con l'altra mise il foulard in balìa del vento. Ah... il vento, presuntuoso condottiero, aveva da tempo iniziato a prendersi gioco di quel tessuto leggero che filtrava di azzurro pallido i colori del mare. I suoi movimenti sinuosi nell'aria, ricordavano, il volteggiare dell'anima nel mare dei desideri. Portava ancora sul volto quel sorriso indefinito di solitudine. Il lamentio delle onde che si spegnevano sulla spiaggia sembrava musica per le sue orecchie. La spiaggia era deserta… c'era solo lei che svolazzava come una farfalla intorno alla vita. Ogni volta che sollevava un piede per formare un nuovo passo, sembrava che stesse volando e quando lo affondava nell'acqua le gocce si componevano in una nuvola bianca intorno ai suoi piedi. Sembrava correre sulle nuvole, mentre la superficie dell'acqua all’avvicinarsi dell’alba assumeva tutti i colori dell'arcobaleno.
All'improvviso si fermò e si mise a guardare il mare, esaminava incuriosita gli scogli, dai contorni indefiniti, che poco distanti da lei sfumavano nel mare. Si diresse verso di loro mentre trascinava il suo foulard dietro di sé. Avanzò adagio, con passi lunghi ed ostacolati dall’acqua, verso quegli scogli così presenti e maestosi: isole nel mare dei pensieri. Dietro di loro il mare... IL MARE… libero dalle catene della spiaggia. Quella parte del mare non aveva esigenza alcuna di raggiungere la terra ferma. Era sciolto, per volontà, da qualunque legame. Giulia la vide, audace, scalare gli scogli fino a raggiungere il punto più alto e lì fermarsi! Guardava le onde frantumarsi per poi ritornare al mare... La vide alzare le braccia sopra la testa, mentre continuava a sorreggere il foulard. Il vento con euforia si prese gioco dei suoi capelli e di quel tessuto leggero che a tratti velava la sua figura di una luce melanconica. Osservò il lieve movimento con cui si era alzata sulla punta dei piedi, come stesse cercando il minor contattato possibile con la fermezza della vita. Aveva gli occhi chiusi e continuava a sorridere. Era silente, lì, ferma, a contemplare il trascorrere della vita sugli scogli incerti di un’anima in pausa.
Quella scena, così dissimile dal resto del mondo, incatenava lei e quegli scogli a un infinitesimo istante della vita, nel suo pieno potere di essere: bello, spontaneo, capace di attraversare perfino l’essenza di qualunque essere umano.
Con il sorgere del sole, di scatto, i gabbiani in riposo sugli scogli si alzarono in volo. Di lei non c’era più nessuna traccia. Era svanita, in un alito di vita. Di tutto ciò rimase solo una leggera piuma, in volo, che con fatica cercava di raggiungere la spiaggia.

Giulia allungò la mano sinistra verso il basso e mentre con quella destra cercava di tenersi in equilibrio raccolse la piuma e la mise nella tasca. In fretta fece ritorno a casa, prese il telefono e con ansia formulò un numero a memoria: «Mamma, maa… ci sei? Sei sveglia? È successo di nuovo, secondo me si è suicidata. Mamma, per favore rispondimi!»
«Di nuovo? Giulia, finiscila! Non può mica ammazzarsi tutti i giorni. Abbiamo già parlato con la tua psicologa di questo argomento e ti ha anche dato una spiegazione plausibile».
«Spiegazione plausibile? Ma dico, ci stai con la testa? Io la vedo! La percepisco!»
«Appunto! Come fai a percepire una figura fantasma, se quella figura non ti appartiene nel profondo? Giulia, amore mio, quella donna sei tu! Attraverso lei vivi le emozioni che, per sensi di colpa, hai sempre negato. Ti ricordi cosa ti ha detto il medico? L’incidente non ti ha danneggiata in maniera irreversibile. Tu puoi camminare. Tu devi camminare! Perché non apri gli occhi, il tuo subconscio lo sta esigendo. Grazie alla fisioterapia hai le gambe ancora allenate, ma sembra che tu non voglia camminare. I tuoi sensi di colpa non ti hanno permesso di vivere il tuo dolore: ti stanno annullando!»
«Smettila mamma! - disse Giulia, incapace di controllare le corde vocali, con un tono stridulo - Non mi fare la solita ramanzina. Ho ucciso una persona innocente! Ho ucciso il mio Ernesto! È morto! E se ti ricordi bene, c’ero io al volante della macchina. È morto per colpa mia ed io sto pagando il giusto prezzo, non lo puoi negare. Mi dispiace mamma! Ma prima o poi devi accettare la realtà, non la puoi rifiutare mica per sempre».
«Ok! È inutile parlare con te! Allora la prossima volta che incontrerai questa donna, la devi fermare e le devi chiedere il suo nome! Guardala in faccia, parla con lei e poi dimmi chi è! Ti sfido Giulia! Diversamente non ti posso credere. Adesso ti saluto, ma per favore domattina cerca di non svegliarmi all’alba; abbi pietà di me! Tanto questa si ammazza una volta al giorno e tu potresti benissimo raccontarmi due episodi in uno. Baci». E mise giù il telefono.
Giulia non trovava pace. Il pensiero logorroico di quella donna non la lasciava neanche per un istante. Aveva ragione sua madre, la sua non poteva essere che un’allucinazione, perlopiù in 3D.
«E se il suicidio di quella donna fosse un evento già accaduto?» Si chiedeva. Poi si ricordò che la settimana scorsa era andata in biblioteca ed aveva sfogliato, sul monitor e senza alcun esito, tutti i quotidiani pubblicati negli ultimi trent’anni.
«E se fosse una visione premonitrice?» Si domandava. «Allora ho il dovere di fermare questa donna, perché probabilmente uno di questi giorni il mare, impietosito, restituirà alla spiaggia il suo corpo mangiucchiato dai pesci».
Non ne poteva più. Non le restava altro che aspettare l’alba. «Per fare cosa?» Si chiedeva. «La prossima volta - decise - la fermerò e le chiederò chi è e cosa fa lì. Anzi, le chiederò addirittura di andare a passeggiare altrove».
Quella notte non successe niente e tanto meno le notti seguenti. Per una settimana Giulia attese quella donna sotto il portico, preparandosi il dialogo da recitare, ma non ebbe la possibilità di conferire neanche una parola con la donna-fantasma.
Tre settimane più tardi dopo una cena impegnativa e logorroica – per i soliti discorsi della madre – rimase sveglia fino all’alba e in memoria di quella donna restò a guardare il mare. Senza accorgersene si stava avviando verso la riva, ma dovette fermarsi. Le era impossibile proseguire con la sedia a rotelle sulla sabbia. Si era oramai arresa. Della donna, nessuna traccia. Poi sentì la brezza mattutina sulle sue guance, alzò la testa per contemplare l’alba. A pochi passi da sé la vide, di spalle, anche lei come Giulia, contemplava il sorgere del sole dal grembo della notte. Giulia rimase per un istante a guardarla, ma poi si fece coraggio: «Signorina, signorina! Buongiorno! Posso…» La donna si voltò - Giulia non la poteva vedere bene in faccia, c’era poca luce - le fece un sorriso, tolse il cappello e si avvicinò piano, piano, a lei. Giulia balbettando le chiese: «Sa, io la vedo, mi correggo, la vedevo…» poi all’improvviso si interrupe! Non poteva credere ai suoi occhi. Sentiva il cuore in gola: batteva troppo forte. Sconvolta, rimase per pochi secondi in apnea come se avesse visto un fantasma. Gelide perle di sudore cominciarono a segnarle la fronte. La donna si mise a sedere sulla sabbia, ai piedi della sedia a rotelle, e posò la testa sulle ginocchia di Giulia. La mano di Giulia ebbe una propria volontà ed iniziò ad accarezzarle i capelli. Giulia guardava fisso nel vuoto, era sconvolta. Quella donna le somigliava, anzi era lei stessa: i suoi desideri, la sua speranza, la sua sofferenza. Il volto rassegnato della donna le ricordò il dolore per Ernesto ed attraverso questo dolore capì che aveva passato due lunghi anni, senza mai piangere, ad affliggersi, a condannarsi per i sensi di colpa. Una lacrima si fece strada sul suo volto seguita da un’altra ed un’altra ancora. Per la prima volta dopo due anni stava piangendo per la mancanza di Ernesto. Con una voce aspra pronunciò: «Sai, mi manca! Mi manca da morire». Poi fece un sorriso ed aggiunse: «Ma ti voglio bene uguale Giulia».
La donna sollevò la testa, le diede un bacio sulla fronte e si alzò in piedi, si voltò verso il mare dando le spalle a Giulia. Poi si mise a camminare lungo la spiaggia.
«Aspetta! Dove vai? Io ho ancora bisogno di te».
La donna si voltò a guardarla. Allungò la mano verso di lei per richiamarla a sé. Giulia non sapeva quello che doveva fare, aveva una grande paura. Prese il piede destro e lo posò sulla sabbia poi fece la stessa cosa con il piede sinistro. Appoggiò le mani sui braccioli della sedia a rotelle e con tutte le sue forze sollevò il bacino per poi tenersi sulle proprie gambe. Un dolore forte e pungente, in silenzio, si fece strada lungo la sua schiena, ma oramai aveva deciso! Desiderava seguire quella donna, passeggiare con lei lungo la spiaggia, inoltrarsi nel mare, raggiungere gli scogli ed allungare la mano per toccare ancora un’altra volta la vita. La donna le prese la mano e così Giulia compose il primo passo e poi il secondo ed il terzo ed un altro ancora. All’improvviso si fermò e disse: «Aspetta! Un istante, un unico istante per guardarmi intorno, per memorizzare». Diede uno sguardo intorno a sé, chiuse gli occhi e respirò l’aria leggera del mare. Quando li riapri vide, poco distante da sé, sua madre, in lacrime con le mani giunte davanti alla bocca. Giulia la raggiunse, lentamente, passo dopo passo. Le sue gambe erano forti e avevano il forte desiderio di sorreggerla. La madre l’abbracciò e la strinse a sé: «Avevo ragione, Dio solo sa che avevo ragione». Poi le indicò la donna che lei aveva lasciato nella gioia di pochi istanti prima: «Ti presento Irene. L’ho incontrata al teatro di Milano. Recita d’incanto. La sua somiglianza con te mi ha portato a…»

E poi fu silenzio! Quel loquace silenzio che riesce ad imprigionare l’essenza dell’infinito in un attimo di gioia, dolore, stupore. Quel pacato silenzio, presente e mai invadente, che tenta di comprendere il fine e l’origine di ogni emozione.