OccidOriente
Liberamente ispirato al racconto "Il manichino dietro il velo"di Sadegh Hedayat

L’IRAN OGGI VISTO DA “NOI”

Compromessi. Questa potrebbe essere la parola chiave per capire, almeno in parte, l’Iran di oggi.
“Chi vuole essere felice in Iran deve trovare dei compromessi con la tradizione”, a dirlo è la 23enne Farideh ma questa frase potrebbe ben diventare lo slogan di una generazione, quella a cavallo tra i venti e i trent’anni, se non addirittura di una nazione intera.
L’Iran è un paese sorprendente forse proprio perché ricco di contraddizioni.


Trovi la buoncostume che sorveglia il rispetto delle regole islamiche, che interviene se il foulard di una ragazza è troppo allentato e che da la caccia alle coppie di fidanzati che amoreggiano in pubblico, ma trovi anche la Sigheh, che tutti questi “problemi sentimentali” li sistema; un contratto che stipula un matrimonio a tempo, a volte solo per poche ore altre per qualche mese. Con la Sigheh va tutto a posto; niente adulterio da punire o rapporti prematrimoniali da castigare.
L’Iran è un paese singolare e forse anche un po’ surreale.
Mentre l’omosessualità è condannata con la pena di morte, i transessuali, fin dai tempi di Khomeini, sono trattati come ammalati bisognosi d’aiuto e le operazioni per il cambio di sesso sono all’ordine del giorno.
L’Iran è un paese dalle fantasiose contraddizioni.
La polizia vietata alle donne, l’uso del cappello invernale al posto del chador e degli stivali sui pantaloni attillati e loro, le ragazze, s’inventano la lipstikjihad, e cioè una gran quantità di trucco sul viso per contestare le imposizioni del regime; anche se si sussurra che ormai sia passata di moda perché come dice la giovane Samineh: ”Non posso certo travestirmi da prostituta per avere l’impressione di essere libera”.
L’Iran è un paese che ci spiazza.
“Ci spiazza”; ecco da dove siamo partiti per cercare di capire.

L’INCONTRO
Un incontro per capire; un incontro tra un gruppo di artisti italiani e uno scrittore iraniano che dell’Italia ha fatto la sua seconda casa, ma che custodisce ed alimenta un profondo legame con il suo popolo e la sua cultura d’origine.
Un incontro dove la moltitudine delle nostre domande era appesantita dall’ansia di andare oltre i luoghi comuni e dove invece, l’apparente semplicità della risposta, indicava già la strada da seguire.
Leggerezza e tradizione; ecco la risposta di Hamid Ziarati.

Leggerezza di tocco per parlare di temi complessi e sfuggenti. Quell’ironica soavità di parola che Hamid ha utilizzato, ad esempio, nel suo romanzo “Salam maman” (ed. Einaudi) dove la Teheran degli anni ’70 e della rivoluzione khomeinista è vista attraverso gli occhi innocenti e meravigliati di un bambino, un Gian Burrasca iraniano che racconta senza giudicare.
La tradizione di una nazione, la vecchia Persia, dal glorioso passato, colmo d’armonia e di grazia, un passato che ha saputo donare al mondo intero tre cose meravigliosamente ed irrepetibilmente inutili dal punto di vista produttivo; la poesia, la miniatura e il tappeto. Tre cose che non rendono la vita più facile ma sicuramente più bella.

UN PROGETTO DI SPETTACOLO

Leggerezza e tradizione dunque per spiegare, o soltanto provare a spiegare, attraverso uno spettacolo, a noi non iraniani, non persiani, non orientali, non mussulmani cosa vuol dire Iran oggi.
E così, guidati dalla soave ironia di Hamid Ziarati abbiamo vagabondato, tra le affascinanti pieghe della tradizione letteraria e poetica persiana.
Alla fine abbiamo scelto un piccolo racconto che possiede due caratteristiche irrinunciabili.
La prima è che pur essendo stato scritto quasi un secolo fa narra una storia universale; una storia d’emigrazione e d’amore, una storia di civiltà diverse, quella occidentale e quella orientale, che s’incontrano e si scontrano, una storia dove l’altro da se affascina e respinge.
L’altra caratteristica per noi fondamentale è che questo racconto ci ha parlato attraverso le immagini; Teheran, uno studente, Parigi, un manichino, ancora Teheran, una giovane innamorata, un velo e una pistola. E le immagini sono fondamentali quando si sceglie un testo che dovrà poi diventare uno spettacolo.
Il racconto è "Il manichino dietro il velo" (1933), l’autore Sadegh Hedayat, da molti considerato il Kafka della letteratura persiana.
Non ci rimaneva altro da fare che affidarlo ad Hamid, perché lui potesse attualizzare, adattare e plasmare, sulla sua personale esperienza di scrittore iraniano immigrato da molti anni in Italia, un racconto di emigrazione scritto da un autore persiano del secolo scorso.

E’ buffo e forse anche un po’ surreale ma ad un certo punto del nostro progetto ci siamo accorti che le fantasiose contraddizioni della realtà iraniana erano penetrate anche all’interno del nostro spettacolo.

Protagonista è un manichino di donna visto da un giovane iraniano in una vetrina di una città europea; personaggio principale e fulcro del racconto che Sadegh Hedayat scrisse più di 70 anni fa, simbolo e rappresentazione dell’apparenza attraente e nel contempo repulsiva di tutto ciò che può essere inteso come “Occidente”.
Una foto ha fatto il giro del mondo qualche mese fa; quella di alcuni manichini nudi esposti in una vetrina di Benetton a Teheran. Manichini, molto probabilmente simili a quello di Hedayat, che anche in questo caso sono diventati simboli, inconsapevoli e muti, della guerra che gli arcigni difensori della moralità e del costume iraniano hanno lanciato contro i marchi della moda internazionale, accusati di essere gli strumenti della penetrazione culturale dell’Occidente corrotto.

NOTE DELL’ AUTORE
“I genitori gli avevano riempito la testa di consigli e insegnamenti vecchi di millenni e, per esser certi che una volta giunto in occidente non smarrisse la retta via, l'avevano solennemente fidanzato ad una cugina che lo avrebbe atteso fino al suo rientro: “Abbiamo cresciuto un fanciullo puro di cuore e di spirito, rispettoso delle tradizioni e dei nostri costumi.”.

L’Iran è una terra di mezzo, tra occidente e mondo arabo da una parte e oriente indiano e cinese dall’altra, un anello di congiunzione tra mondi in contrasto, sia sul piano sociale che

su quello culturale e ciò determina le molteplici contraddizioni interne a cui è arduo dare una spiegazione logica. Gli iraniani sono nutriti contemporaneamente dal nazionalismo, dal tradizionalismo persiano, dalla modernizzazione dell’occidente, dal misticismo dell’oriente e da una professione di fede in arabo, una lingua a loro sconosciuta.
Tutta questa miscellanea d’influenze culturali è ciò che rende l’Iran uno scenario originale e affascinante, da ogni angolazione la si guardi. (Hamid Ziarati)

NOTE DI REGIA
"Ci vuole molta energia per vivere un conflitto ed altrettanta è necessaria per raccontarlo.
Un conflitto vive accovacciato e diventa comunicabile, spesso, quando ormai è troppo tardi, quando viene compiuto un gesto eccessivo, o sopraggiunge una morte, una guerra, un crollo. Spesso questo atto eccessivo viene cavalcato dai media per farne un "mostro" da prima pagina e così si perde nel magma e rischia di non essere nemmeno più ascoltato per quello che è: una storia.
Il teatro parla attraverso storie e azioni eccessive, ma è propria della tradizione del palcoscenico una certa leggerezza ed eleganza che possano rendere lievi e magiche storie che nel quotidiano ci appaiono crudeli e senza speranza.
Il pubblico del teatro si prepara, esce di casa e si aspetta di assistere ad un rito civile, di condividere parole ed emozioni con altri silenziosi compagni di viaggio per vivere un'esperienza altrimenti difficile o pericolosa, addirittura, nella vita reale.
Il racconto di Sadegh Hedayat può portare in un mondo lontano rendendolo a noi più vicino, attraente perché ciò che non ci aspetta accade e ciò che è prevedibile non accade.
L'ansia occidentale di correre alla ricerca di un centro di gravità permanente (come diceva Battiato) è la stessa che può attrarre il pubblico a questa imprevedibile storia d'amore persiana, che porta a scoprire e comprendere aspetti di una cultura più simile alla nostra di quanto possiamo immaginare.
La resa teatrale della storia vuole quindi essere uno stimolo per lo spettatore occidentale a vivere suoni, colori, movimenti e personaggi di un Iran leggero e sensuale dove per contrasto, la storia di chi non riesce ad integrarsi è - come in Italia- la storia di chi rinuncia alla leggerezza e alla fatica di un sogno ogni singolo giorno in ogni singolo gesto.
Due luoghi e due mondi saranno a confronto, con fili di somiglianza visibili e potenti a raccontare attraverso le parole ed i gesti di un uomo, di una donna, e di un manichino, la modalità con cui fantasmi e ossessioni legate all'amore e ai desideri per la vita siano gli stessi e in ogni essere umano e come il conflitto sia il riflesso di energie trattenute e disincarnate. La domanda chiave è "cosa, nella vita ci fa cambiare e crescere veramente: le richieste del mondo esterno o quello che ci aspettiamo di diventare per noi stessi?".(Eleonora Moro)

Tradizione, attualità, contraddizioni, si sono fuse in un unico spettacolo che prova a raccontare l’Iran dei nostri giorni. Senza però dimenticare la leggerezza perché, come ci ha spiegato Hamid Ziarati: “Un paese con la bandiera color anguria non può che essere così. Un frutto verde fuori e bianco e rosso dentro, sembra duro e invece è più fragile del silenzio. Per non parlare delle raffiche di sputi che devi sparare per espellere i semi”.

“OccidOriente”
Terra di mezzo
Liberamente ispirato al racconto "Il manichino dietro il velo"di Sadegh Hedayat

Drammaturgia
Hamid Ziarati
Regia
Eleonora Moro
Progetto teatrale
Laura Negretti
Scenografie
Armando Vairo
Con
Laura Negretti
Ulisse Romanò

Produzione
Teatro in Mostra - Como