Il vicolo non era molto largo, intorno agli otto metri. E neppure la sua lunghezza era eccessiva, dopo sei o sette case si poteva arrivare alla fine, davanti al muro, così alto. Lo stesso muro che stava in mezzo tra me e gli sconosciuti.


Il vicolo principale lo chiamavamo "la salita", perché lì ci arrampicavamo con difficoltà in bicicletta, quando tentavamo di arrivare in cima.
Il ritorno, invece, era gioia… Pedalavamo, anche se non era necessario, ma lo facevamo…

Quando arrivava il tramonto, le voci della madri si levavano alte:
- Daryush!...Shabnam!...Shahab!...
Alcune volte le voci si incrociavano le une con le altre:
- Koorosh!...
E la voce che chiamava Shabnam continuava:
- Ora è buio!
E un'altra:
- Ritorna a casa!...

Mentre scendevamo "la salita", vedevamo il giardino, chiamato Forough, ma prima, sulla sinistra, lo stesso vicolo cieco di otto
metri…dove io andavo sempre. Pedalando in maniera veloce, arrivavo sempre vicino al muro e frenavo con i piedi. Il freno della mia bicicletta non era rotto, ma non funzionava neppure tanto bene…i miei occhi erano fissi al muro, non più il muro, ma oltre il muro, il mio sguardo già oltre il muro, sulla palla; la stessa palla che tutti noi – "i ragazzi della salita"- sognavamo…
Potevamo sentire costantemente i suoi rumori, i colpi. Si poteva vederla volteggiare nell'aria. Qualche volta vedevo quella palla dal vicolo principale, che dondolava dolcemente nell’aria. La palla era per loro come una figura familiare, una persona cara. Era impossibile lasciarla cadere dal nostro lato.
Forse potevano essere più persone e ogni persona poteva avere i suoi interessanti giochi, in una casa gigantesca o in un giardino senza fine e verde, e uno dopo l'altro si scambiavano, le persone e i giochi. Nuotavano, giocavano a pallavolo, a pallacanestro… forse avevano le biciclette. E giocavano sempre con quella palla. Così sembrava che ci fosse tanta gente….e la palla non aveva pace. Roteava nell'aria oltre il muro, morbidissima.
Evidentemente nessuno conosceva gli sconosciuti. Pensavo non fossero miei coetanei. Ma dal loro rumorio che nel silenzio della serata si avvertiva fin da qui, riuscivo ad intuire che non erano più grandi di me. La gente diceva che la loro porta si apriva sulla direzione della strada principale; la stessa strada che non dovevo percorrere; quella che mia madre diceva di evitare ogni volta che la percorrevo con lei. Una volta le chiesi il perchè, ma rispose soltanto dicendomi di non avvicinarmi mai a loro! Non so se lo abbia detto così per dire, o perchè voleva liberarsi di me oppure perché aveva paura che io andassi per la strada principale… Ma comunque era davvero strano, non lasciavano mai la palla e non le permettevano che cadesse di qua…era da un po’ di tempo che pedalavo sulla mia bicicletta per arrivare al vicolo e stare in agguato. Una, due volte mi hanno seguito di nascosto dei miei amici, i ragazzi della salita, ma non hanno capito perché andassi sempre il quel vicolo….e così io mi occupavo della mia bicicletta affinché loro non guardassero in su, affinché non guardassero la palla. Gli sconosciuti non erano molto rumorosi, non litigavano mai… ma io notavo di più, io percepivo i loro vaghi rumori! Anche se il loro linguaggio sembrava creato apposta per noi, solo per noi, proprio a noi risultava incomprensibile.
…ma un giorno durante il tramonto mentre scendevo la salita con velocità, girai per il vicolo di otto metri e improvvisamente frenai, al centro della strada. Non credevo ai miei occhi: gli sconosciuti non stavano giocando. Non vedevo la palla, contrariamente al solito, che rimbalzava di qua e di là con continuità. La stessa palla di pelle bianca e leggera…era abbandonata all'angolo del muro alla fine del vicolo cieco; non si muoveva. Non ricordavo più da quanto tempo avessi poggiato la mia bicicletta a terra quando andai verso di lei. Si, era la palla di pelle bianca…guardavo prima lei e poi in su. Mi sembrava strano che nessuno fosse venuto a prenderla. Cosa poteva essere successo?! Ho pensato che forse non era passato molto tempo da quando la palla era caduta di qua… Fino a che, ad un certo punto, ho intravisto la cima della scala, segno che stavano posizionandola giusto in quel momento. Era giusto. Era arrivato proprio in tempo. I rumori degli sconosciuti erano più forti. Parlavano più chiaro. Si poteva capire, ma io non li udivo, perché il mio unico pensiero era soltanto alla palla….Forse una disputa per chi dovesse andare a prenderla… Era desiderabile e incantevole, leggera, tanto leggera da immaginare che il suo posto fosse proprio li, là su, nel cielo, come gli uccelli… Ho ripreso la bicicletta e mi sono seduto sopra. Ho pedalato velocemente. Avevo imparato a guidare la bicicletta con un mano di recente. Barcollavo nel vicolo, in quella oscurità, ad un tratto mi sono fermato e mi sono voltato. Ho visto la testa di uno di loro; la testa di uno degli sconosciuti. Mi sono mosso, di nuovo, rapidamente, bruscamente, come un uomo che gira vorticoso. Sembrava fosse il mio cuore a pedalare e ad andare avanti. Sono arrivato all’ inizio del vicolo;del muro. Mi sono girato e l'ho visto. Si, alzato sul muro e aveva lo sguardo fisso, nel buio…
Ma la palla adesso era mia…Non c'era nessuno dei miei amici. Tutti erano già nelle proprie case. Ho percorso la salita con difficoltà. Sono arrivato a casa. Ho nascosto la palla nel tronco dell'albero vecchio del cortile. Non ero sicuro che gli sconosciuti mi avrebbero riconosciuto, ma comunque non sono uscito di casa per tre giorni. Dicevo di dovere studiare…ma quanto avrei voluto andare dalla palla per palleggiarla e poi nasconderla nuovamente nel tronco dell'albero! Nessuno ha chiesto notizie…
Il quarto giorno sono uscito di casa. Con la mia bicicletta ho sceso la salita. Ho rallentato, e quando sono arrivato al vicolo, mi sono fermato.…era apparsa da quella parte; ancora giocavano!
Gennaio 2007-Torino