Oltreilchador

Agrodolce primavera

Fin dai miei primi giorni in Iran avevo sentito decantare da tutti le meraviglie della primavera. Quando finalmente è arrivata la bella stagione, sulle prime non potevo nascondere a me stessa una certa delusione: ciò che avevo intorno, non era affatto quello che ero abituata a chiamare primavera. Come per tutto quanto il resto, vivere in un paese straniero significa anche dovere imparare ad interpretare lingua, gesti, arte, natura. Era una primavera aspra: ci voleva una passione speciale per condividere l’entusiasmo degli iraniani, per essere in grado di capire e amare quella primavera. Ogni città metteva in mostra gran quantità di fiori nelle strade e nei giardini pubblici, erano bellissimi, certo, qualcuno li aveva amorevolmente piantati, ma, nel frattempo, dove stava svolgendo il suo vero lavoro Signora Natura?



Fin dalla mia prima lezione all’università avevo notato Mina, una bella e dolce ragazza sempre molto timida, che il nero del chador faceva sembrare ancora più magra e triste. Una mattina di primavera questa mia studentessa mi ha invitata a passare un giorno in campagna con la sua famiglia. Il venerdì successivo, lasciandoci finalmente indietro il rumore e l’inquinamento della città, allontanandoci dagli stabilimenti industriali, ed entrando negli spazi infiniti del rude altopiano, ho infine cominciato a capire di che primavera si trattava.
Alla periferia di Isfahan incombono le forme mostruose delle raffinerie e di altri stabilimenti industriali, ma basta una svolta decisa verso montagne di cui sembra irreale anche il nome (Montagna Leopardo, Montagna Coda Gialla, Montagna Fonte di Isaia) e la striscia di asfalto si interrompe: niente più macchine, solo greggi di pecore e di capre. Come in America, esistono tanti luoghi senza segni dell’uomo: è la wilderness iraniana, ma la parola è intraducibile in italiano, da noi forse solo i crateri dei vulcani non sono ancora antropizzati, e Leopardi dovette inventarsi un islandese per immaginare il suo Dialogo con una Natura totalmente indifferente alle sorti umane. Ed ecco l’antica fortezza di Ghameshlu dove un tempo si allevavano centinaia di cavalli. Appena oltre, i primi cervi: il padre di Mina mi raccontava che i tedeschi pagano fior di quattrini per venire fin qui a cacciare, lui stesso era un cacciatore, ma per mia fortuna quella non era la stagione adatta, e mi sarebbe stata risparmiata la vista del sangue.
Dapprima non sono neanche riuscita a scorgerli, tutti nascosti com’erano nelle pieghe verdi che ricoprivano ancora le montagne possenti. Avvicinandomi un po’, eccoli lì, li ho visti tutti schierati in combattimento, alcuni in formazione compatta, altri alla spicciolata, almeno per il momento trionfanti su un suolo che non offriva né scampo né pietà: i classici fiori nel deserto si stavano godendo la loro splendida, effimera vittoria. In trepida attesa dell’entrata in campo dei fiori di primavera, stava appostato già da qualche settimana un nutrito esercito di alveari, intenzionato ad inseguirli fino alla resa finale. Quella degli apicoltori, in Iran come un tempo anche in Europa, è una sorta di transumanza.
Insieme ai fiori e agli alveari, tra valli e montagne infinite, si spostano ciclicamente le popolazioni nomadi dell’Iran, tuttora circa un milione di persone. Appartengono a circa 400 diverse tribù, alle quali almeno 10 milioni di iraniani si considerano legati etnicamente. Si dice che siano molto ricchi, il loro capitale consiste in veri eserciti di ovini, con cui inseguono senza tregua i pascoli nel desertico altopiano iraniano: imbattermi in un loro insediamento è stato uno degli spettacoli più emozionanti della mia vita. Le donne mi hanno invitata a prendere il tè dentro la grande tenda nera (chador, cioè appunto ‘tenda’), divisa a metà tra lo spazio destinato a masserizie e focolare degli uomini, e il recinto degli animali. Al momento dell’apertura del cancello, frotte di agnelli belanti si sono precipitate fuori e ciascuno di essi con infallibile, miracolosa sicurezza, fra centinaia e centinaia di mammelle, ha trovato il latte della propria madre. Fin dal tempo di Caino e Abele, non è mai corso buon sangue fra coltivatori sedentari e allevatori nomadi, le due contrapposte anime del genere umano. Sembra che all’origine della storia umana siano state le donne a preferire la vita sedentaria, specie quando le gravidanze rendevano difficoltosi gli spostamenti. In Iran tutto ciò è storia recente, ancora nell’800 circa il 40% della popolazione praticava il nomadismo, un numero poi drasticamente ridotto durante il governo dello scià Reza Palhevi, che negli anni ’30, nella sua campagna di forzata modernizzazione del paese, cercò di costringere le tribù a costruirsi case di fango.
Joseph Arthur Gobineau e Pierre Loti: entrambi francesi, entrambi viaggiatori, in compagnia dei loro fascinosi racconti (‘Viaggio in Persia’ e ‘Verso Isfahan’) anch’io ho percorso le enormi distanze dell’altopiano iraniano. Quando solo i cammelli osavano sfidare il deserto, le carovane passavano la notte nei caravanserragli: in centro la piattaforma per le bestie, mentre gli uomini, a secondo della stagione dell’anno, per evitare i rigori del clima, usavano solo un lato del grande quadrato. Così importanti erano i cammelli che essi, sia in persiano che in arabo, sono gli unici animali ad essere contati a persone (non si dice ‘due cammelli’, ma ‘due persone-cammello’).
In spagnolo c’è un termine diverso per ogni tipo di prosciutto, in America si abboffano di carne nelle steak house, in Brasile affogano nel rito tribale del churrasco, in Sud Africa usano la carne secca come chewing gum. Tutte società carnivore in cui non c’è molto posto per i vegetariani, noi italiani un tempo lo eravamo, ma la ‘celebre ‘dieta mediterranea’ non era una scelta ma segno di povertà. In Iran gli istinti primordiali si scatenano nel rito del kebab, che il padre di Mina arrostiva su spiedi lunghi come spade. Ma non ero fra i cowboys del Woyming, e nemmeno fra i ranchers del Sud Africa, ed era quasi impossibile incontrare una persona che non lasciasse intuire in sé qualcosa dell’anima e dell’antica cultura iraniana.


Questo brano è stato pubblicato per gentile concessione dell'editrice Medusa di Milano ed è tratto dal libro: "Oltre il chador - Iran in bianco e nero" di Marcella Croce (Medusa Editrice Milano 2006)

Link per altre informazioni sul libro e per leggere gli stralci di alcuni capitoli: https://oltreilchador.googlepages.com/



Marcella Croce

Marcella Croce è nata nel 1949 a Palermo, dove si è laureata in lingua e letteratura inglese (1972).
Ha ricevuto una borsa di studio dell’Università di Palermo (1971, University of Malta), una del Ministero Affari Esteri (1973, Oslo University) e una Fullbright Scholarship (1971-72, Mt. Holyoke College, Mass. USA). Ha conseguito il certificato in TESOL (1978), il Master (1977) e il Dottorato di ricerca (1988) in letteratura italiana presso la University of Wisconsin-Madison (USA). Per circa venti anni ha tenuto corsi di tradizioni popolari della Sicilia e coordinato programmi culturali organizzati dal Trinity College (Elderhostel Programs, Hartford, CT, USA), e dalla Saga Holidays (Road Scholar Programs, Boston, Mass. USA). Ha insegnato e coordinato il programma di studio in Sicilia degli studenti dell’Union College (Shenectady, N.Y., USA), e il programma di gastronomia siciliana dell’organizzazione Grancooks di New York.
Ha tenuto conferenze sull’arte e le tradizioni popolari della Sicilia negli Istituti Italiani di Cultura di New York, San Francisco, Chicago e Kyoto, oltre che in numerose scuole, musei, e associazioni culturali sia in Italia che all’estero, tra cui la Taiwa Cooking School di Kyoto.
E’ stata docente di ruolo di lingua e letteratura inglese presso il Liceo Classico Statale Meli di Palermo, dove è stata anche docente di corsi sulle tradizioni popolari siciliane (Progetto Scuola-Comunità), e coordinatrice del corso post-diploma per la qualifica professionale di ‘Tecnico per la valorizzazione dei centri storici’. Dal 2003 al 2006, per conto del Ministero Affari Esteri italiano, è stata docente di lingua italiana presso l’Università di Isfahan (Iran) e la Ritsumeykan University di Kyoto (Giappone).

Pubblicazioni:

Marcella Croce è giornalista pubblicista e dal 2000 è collaboratrice per la Cronaca di Palermo del quotidiano La Repubblica.

Ha pubblicato:

* Pupi carretti contastorie - Aspetti della tradizione cavalleresca nelle tradizioni popolari siciliane- Flaccovio Palermo 1999
* Pupari - Storia di Girolamo Cuticchio, dei pupi e di una tradizione- Flaccovio Palermo 2003
* Le stagioni del sacro - Almanacco delle feste popolari siciliane
Introduzione di Roberto Alajmo - Flaccovio Palermo 2004
* History on the Road - The Painted carts of Sicily
Introduzione di Mary Taylor Simeti - Pogopress Minneapolis USA 2005
* Oltre il chador - Iran in bianco e nero
Introduzione di Matteo Collura - Medusa Milano 2006
* Eat smart in Sicily – History of Sicilian food
Gingko Press Madison Wisconsin USA – uscita prevista nel febbraio 2008