Shirin Neshat

Nata a Quazvin, in Iran, nel 1957, Shirin Neshat lascia il suo paese nel 1974 per studiare arte negli Stati Uniti (dove già vive una sorella). E' a Los Angeles quando, nel 1979, la rivoluzione mette fine alla monarchia dello Scià e instaura in Iran il regime islamico di Ruhollah Komeyni e degli Ayatollah. Per dieci anni, fino alla morte di Komeini (1989), il cambiamento politico le impedisce di tornare in patria e ricongiungersi con la famiglia.




Il primo viaggio di ritorno in Iran risale al 1990. L'artista è fortemente colpita dal nuovo stile di vita imposto dal regime teocratico ai sudditi, e soprattutto alle donne (un esempio: la legge che nel 1983 aveva istituito l'obbligo del chador). Afferma lei stessa, in un'intervista del 1997, che il cambiamento avvenuto nel paese natale è stato una delle esperienze più sconvolgenti della sua vita.

Ciò l'ha convinta a tornarvi spesso, e ad interessarsi alla «questione della separazione dei sessi ed alla sua relazione con il tema del controllo sociale e dell'ideologia». Da queste visite, insomma, è poi nata la decisione di dedicare il proprio lavoro alla riflessione sulle profonde differenze che separano la cultura occidentale, a cui è ormai assimilata, e quella islamico-orientale, da cui proviene.



L'opera di Shirin Neshat, così, «pone in relazione la religione islamica come oggi si manifesta e il femminismo, il rapporto fra i sessi, le censure di ordine sociale che regolano l'espressione del desiderio, la diversità». Lo fa, però, in una prospettiva che «non intende dare giudizi, ma anzi ridiscutere le nostre certezze ideologiche e lasciare aperte le interpretazioni»: i suoi lavori, come ha scritto qualcuno, sono «un ponte fra le contraddizioni che attraversa il fiume dei pregiudizi».

Il primo ciclo di lavori nati da questa prospettiva sono le fotografie di “Women of Allah”, in cui - anche per sottolineare il proprio personale coinvolgimento nei temi che tratta - l'artista ritrae se stessa (sola o con altri) vestita con il chador islamico. Le parti del corpo rimaste visibili (viso, mani e piedi) sono coperte di un'elegante Farsi, la scrittura calligrafica persiana). Tracciata a mano, con penna e inchiostro di china, riporta ribelli versi d'amore di poetesse iraniane perché – spiega l'artista - «la grafia è la voce della foto», è «una voce che rompe il silenzio della donna ritratta».

Le immagini sono «concise, sorprendenti», come scrive RoseLee Goldberg nel catalogo della mostra, e a poco a poco «si caricano di nuovi significati politici, ben al di là delle intenzioni iniziali dell'artista». Spesso Shirin Neshat vi appare mentre mostra un'arma da fuoco: è un elemento che rimanda indirettamente alla violenza della rivoluzione iraniana, e che accentua l'ambiguità delle immagini stesse.

Shirin Neshat raggiunge notorietà internazionale, imponendosi come una delle giovani artiste più rappresentative della sua epoca, proprio con queste opere esposte in vari paesi in importanti mostre personali e collettive. «In cerca di una nuova forma di linguaggio che permettesse flessibilità, ambiguità e un'ampia gamma di possibilità», afferma lei stessa, dal 1996 l'artista allarga il cerchio della propria ricerca espressiva.

Interessata al cinema e al suo linguaggio, influenzata dall'opera del noto regista iraniano Abbas Kiarostami, comincia a realizzare anche video (il primo è “Anchorage”). Presto si distingue per la scelta di proiettare le sequenze su due schermi, opposti o accostati. In questo modo, i video assumono un andamento narrativo più accentuato e significativo («designando con gli schermi separati spazi concettualmente contrapposti, per esempio la dialettica maschile-femmminile, pubblico-privato o orientale-occidentale») e lo spettatore è coinvolto anche fisicamente nella sua percezione.

In italia le sue opere sono state esposte al Castello di Rivoli, in provincia di Torino.