Il marito americano

Aug 182010
 

Il marito americano di Jalal Al-e-Ahmad
Traduzione dal Persiano in Italiano:Cristina Bianciardi

<<…Vodka? No, grazie. Non mi piace la vodka. Meglio un goccio di whisky se c’è. Grazie. No, niente acqua. Non avete della soda? Peccato!
Alla fine le pessime abitudini di quello schifoso mi hanno lasciato il segno. Se sapeste quanto whisky e soda beveva! Fintanto che stavo a casa del mio papà non l’avevo mai assaggiato. Papà stesso tutt’ora non beve. Nessun tipo di alcolico. No, non è credente o devoto. Cosa vuole, in famiglia nostra non si usava.

La prima cosa che mi insegnò quell’immondo fu preparare il whisky con soda. Quando tornava dal lavoro, non aveva ancora oltrepassato il corridoio, che doveva avere tra le mani il suo whisky e soda. Prima ancora di lavarsele. Se aveste saputo cosa faceva con quelle mani!?
A volte, quando lui non era in casa, provavo il desiderio di avvicinare le labbra al suo whisky. A quei tempi mia figlia non era ancora nata e io mi annoiavo tutta sola.
Non mi piaceva. Mi bruciava la gola. Per quanto insistesse che bevessi con lui, non ci fu verso.
Quando rimasi incinta si ostinò e mi fece bere la birra perchè, [diceva], fa bene al latte. Il whisky mai. Non mi ero assuefatta, fino all’ultimo.
Fu il giorno in cui mi informarono del suo mestiere che mi scolai un intero bicchiere di whisky schietto. Poi ne versai uno per me e uno per lei, la sua “girlfriend” o, per meglio dire, la sua ex fidanzata.
Era stata lei, alla fine, ad informarmi. Ci sedemmo in due a bere whisky e a confidarci. A piangere. Se ci pensate… diplomata, bella – lo si vede, no!-, un papà rispettabile, senza problemi economici, corsi privati di inglese e, [come si dice], nella condizione di non dover essere costretta ad adattarsi a qualsiasi uomo… e poi con uno così?!! Chi ci crederebbe, con tutti quei giovani laureati sparsi nel paese, ingegneri, dottori… poi, alla fine, anche quei disgraziati si sposano con donne straniere o americane: la figlia del postino del loro quartiere, la commessa del “supermarket” della zona, oppure l’assistente del dentista che un giorno ha tamponato loro i denti con del cotone. Dovreste vederle quante arie si danno dopo! Credono di essere davvero “Suzanne Hayworth” , “Shirley MacLaine” o “Elisabeth Taylor”.
Sentite questa… sere fa ho conosciuto una di queste tipe, sposata da due mesi con un signorino iraniano e arrivata qui da una quindicina di giorni. Suo marito viene convocato con un telegramma del tipo “vieni, sei diventato rappresentante del parlamento” e il padrone di casa che non vuole lasciare sola l’ospite straniera mi chiede di farle compagnia perchè lei possa parlare la propria lingua e avere qualcuno con cui confidarsi. Era proprio la scorsa settimana. Quella ragazzetta, con quelle sole due parole texane che sapeva dire… non c’è da ridere, non sto scherzando! Allargava la bocca in un modo incredibile. Aveva le unghie grosse, segno che aveva lavato una marea di piatti ogni giorno. E sapete che diceva? “Siamo noi che vi abbiamo portato la civiltà, noi che vi abbiamo insegnato a usare il forno a gas e la lavatrice… e via dicendo… a guardare le sue mani si capiva che nel Texas lavava ancora i panni nel catino. Quante arie! Era figlia di un bovaro, mica di uno di quelli che hanno trovato il petrolio nel proprio terreno e che non si sentono più povere creature di Dio. No, era una di quelle che portano a pascolare le vacche degli altri.
Ovviamente io non dissi niente, ma un tipo che era nel gruppo si fece avanti e con il suo inglese grossolano le disse: “se la civiltà è questa che voi dite la restituiamo a quella stessa compagnia che ci ha spedito voi come premio con la lavatrice “.
Ovviamente la ragazza non capì. Cioè non capì l’inglese dell’ometto. Fui costretta a tradurre. E lei, invece di rispondere al tipo si rivolse a me con “evidentemente hai un brutto carattere o ti sei comportata male che tuo marito ha chiesto il divorzio!”. Con questa stessa sfacciataggine. Ed io che per rimediare alla rudezza delle parole di quel tale e per farla sentire meno sola le avevo raccontato che ero stata negli Stati Uniti, avevo avuto un marito americano, avevo divorziato ed ero ritornata [in patria]. Quando in seguito le spiegai che lavoro faceva mio marito e che era questo il motivo della separazione, sapete che disse? “Non è mica un buon motivo! Nessun lavoro è indecoroso. Evidentemente la sua famiglia ti avrà ingannata perchè tua figlia non riceva l’eredità. Oppure ti sarai comportata male…” e via dicendo. Non si rendeva conto che era l’ultima arrivata, anzi, si sentiva anche in credito. Non aveva torto! Suo marito era un rappresentante del parlamento. Ah, se questi disgraziati non andassero a prendere donne svampite di questo tipo, ragazze come me non sarebbero costrette a simili tribolazioni.
Non me ne versate molto. Dopo sto male. A stomaco vuoto un altro bicchierino di whisky è sufficiente. Non sarebbe male se ci fosse anche un pezzo di formaggio. Grazie. Oh è questo il formaggio? Perché così bianco? E quant’è salato! Di dov’è? Liqvan? Dove si trova? No, non so dove sia. Quello olandese e danese li conosco, ma questo non mi piace per niente. Preferisco mangiare solo i pistacchi. Grazie. Che dicevo? Sì, l’ho conosciuto in un club per americani. Era un anno che frequentavo i corsi di lingua. Sapete com’è tutto caotico qui. Appena preso il diploma mi iscrissi al concorso [per frequentare l’università]. Si sa che non è facile passare tra venti o trenta mila persone. Fu così che papà mi disse: “vai ai corsi di lingua, così ti tieni occupata e impari anche una lingua straniera”. A quel tempo il laido era uno degli insegnanti. Alto, slanciato, bello, capelli biondi, un americano perfetto. E che dita lunghe. Coprivano tutto il quaderno dei compiti. Ebbene, ci piacemmo fin dall’inizio. Era molto cortese. Dapprima mi invitò ad una mostra di pittura, quello al nuovo club di Abbas Abad. Uno di quelli dove disegnano la testa senza corpo, oppure mettono assieme mucchietti di colore o, disegnano un cuscino e lo chiamano uomo e poi gli mettono sulla testa una coppa, o ancora, due sole macchie di marrone su due metri di tela.
Aveva invitato anche papà e mamma che andarono in brodo di giuggiole. Ci riaccompagnò a casa con la sua macchina. Quanta cortesia, tutto un aprire la portiera della macchina e cose simili. E tutto ciò per mamma e papà che ancor’oggi non hanno la macchina. Insomma, da quella sera stessa la cosa era fatta. Più avanti mi invitò al ballo. In occasione di una delle loro festività. Forse era il “Thanks Giving”. Come non sapete cos’è? C’è l’America e poi il “Thanks Giving”, cioè il Giorno del Ringraziamento. La ricorrenza del giorno in cui gli americani fecero fuori l’ultimo pellerossa. Certo che papà dette il consenso! E perché non doveva? Non avevo nessun altro con cui esercitarmi fuori dalle lezioni. E poi è inutile studiare una lingua se non la pratichi. Eravamo d’accordo che io gli avrei insegnato il persiano. Ovviamente fuori dalla classe. Un giorno alla settimana veniva a casa nostra proprio per questo. Si fissò l’appuntamento[per il ballo]. Non potete immaginare com’era la festa. Avevano scavato la zucca ricavando occhi, naso e bocca per poi accendervi all’interno una candela. Oh, che ballo! Ormai, un pò alla volta, riuscivo a capire l’inglese e non rimanevo in disparte. Tra l’altro, c’erano anche molti iraniani. Persino quella sera insistette, ma non bevvi neppure la birra. La cosa gli piacque perchè, quando mi riaccompagnò a casa, disse alla mamma che doveva esser fiera di una figlia simile. Io tradussi. Oramai ero diventata una vera traduttrice. Passarono così otto mesi. Andammo assieme a remare alla diga di Karaj, al cinema, al museo, al bazar, a Shemiran e a Shah Abdol-‘Azim e in molti altri posti che io non avrei mai visto in vita mia se non ci fosse stato lui.
La notte di Natale ci invitò a casa sua. Sapete almeno cos’è la notte di Natale?!. C’erano anche papà e mamma e c’era pure Fefer. Come chi è? Mio fratello Fereidun. Gli avevano mandato per l’occasione due tacchini arrosto da Los Angeles. Oh, ma voi non sapete proprio nulla? È vicino a Hollywood. Non era l’unico ad aver ricevuto il pacco. Lo mandano a tutti loro perchè non si sentano soli la vigilia. Quando uno come quel laido viene espressamente mandato a Tehran per un lavoro simile, birra, sigarette, whisky e cioccolata non mancano mai. Credetemi, avrei preferito fosse un assassino, un ladro, un delinquente o un mafioso piuttosto che facesse quel mestiere.
Si, grazie, un altro bicchierino di whisky. Non sembra americano. Loro bevono il “bourbon”. Ha il gusto della terra. Sì, questo è “scotch”, è molto pungente. Proprio come gli inglesi. Bene, che dicevo? Sì, quella sera stessa mi chiese ufficialmente la mano.
Eravamo a cena. Ed io che traducevo. Interessante, vero? Nessuna si era mai sposata così. Prima tagliò il tacchino e ci servì, poi stappò lo champagne che versò anche a mamma e a papà. Lo versò a tutti. La mamma non bevve, mentre papà sì. Anch’io lo assaggiai. All’inizio è forte e aspro, poi però il gusto acre passa e ti lascia in bocca un sapore dolce. Se ne uscì dicendo “dì a tuo padre che ti chiedo in moglie!”. Insistette affinché traducessi frase per frase, chiaramente e senza tralasciare nulla: aveva fatto il servizio militare, era esentato dal pagare le tasse, il gruppo sanguigno era B, non aveva malattie, guadagnava 1500 dollari al mese che, una volta ritornato [in patria], sarebbero stati ottocento. Aveva una casa propria a Washington, non doveva pagare affitti nè mutui. I suoi abitavano a Los Angeles, non interferivano nei suoi affari e così via. Papà era favorevole già la prima sera, figuriamoci. Mi aveva detto subito: “stai attenta figlia mia, solo una su mille si sposa un americano. Non è mica uno scherzo, non è così facile!”. Questo discorso mi risuona ancora nelle orecchie. “Però –aveva detto- sei tu a saperlo. Sei tu che devi vivere con tuo marito. Chiedigli una settimana di tempo per pensarci”. Così fu. Anche se ormai era già tutto stabilito. Tutti i parenti lo sapevano. Facemmo le feste e gli inviti d’uso. Quanta invidia da parte di tutti e quante ragazze gli furono presentate. Proprio per questa questione litigai con tutte le mie cugine. Papà aveva ragione, non era uno scherzo. Tutte le ragazze sognavano [un matrimonio simile]. Ma il tipo aveva chiesto me in sposa. Non aveva senso che mi sacrificassi presentando un’altra al posto mio. In tutto questo solo mia nonna era contraria. Diceva: “in famiglia nostra abbiamo uno di Kashan, uno di Isfahan e perfino uno che viene da Bushehr. Li conosciamo tutti. Ma un americano non lo abbiamo mai avuto. Che ne sappiamo chi è. Un fidanzato di cui non puoi frequentare la famiglia, nè andare a casa sua e, non ci si può neppure informare sul suo conto presso il vicinato!” Discorsi da vecchia comare. Non venne neppure al matrimonio. Se ne andò a Mashhad in modo da non esserci. Io comunque ero felice. Avevamo chiamato un notaio di nostra conoscenza. I parenti c’erano tutti ed anche un gruppo di americani. Le foto che non si sono fatte al banchetto di nozze. Uno degli amici di mio marito fece addirittura un filmato. Dio ci liberi da questi americani! Volevano capire ogni cosa. Mi facevano domande a raffica: “Ora siete davvero sposati?” Non riuscivano mica a capire. “Cos’è questo?”, “Perchè si polverizza lo zucchero [sul capo della sposa]?”, “Cosa c’è scritto sul pane? “, “Dove si compera l’incenso?”. Per fortuna tutto finì bene. In quella stessa cerimonia due fidanzatini della mia famiglia furono assunti come autisti dalla loro ditta. Lui stabilì un mehriye di centomila toman. Pronunciò, con molta fatica, la formula conclusiva la el-la al-lah. Ridemmo tutti quando disse la frase la ella al-lah che rende legale il contratto di matrimonio. E per quanto riguarda la sua professione? Insegnante di inglese, ovviamente. Anche se nel contratto avevano scritto giurista. Due dei suoi testimoni lavoravano all’ambasciata. Con questa sola menzogna potevo mandarlo in prigione e chiedere anche il risarcimento. Come minimo potevo costringerlo a pagare altri seicento dollari oltre ai quattrocento che deve dare ogni mese per mia figlia. Ma con quale vantaggio? Non volevo più rivederlo. Neppure per un’ora. Fu per questo che alla fine acconsentì ad affidarmi la bambina sennò, secondo le loro leggi, avrebbe potuto tenersela. Ovviamente io non gli chiesi di pagarmi il mehriye. Se li spenda per il funerale i suoi soldi. Se sapeste come se li guadagnava! Come si fa a comprarci una collana d’oro e mettersela al collo? Oppure comprare la carne e il riso e mangiare? Anche la ragazza lo diceva quel giorno. Sì, la sua “girlfriend” di un tempo, la sua ex fidanzata, la sua amichetta. Che ne so. Fu la prima e l’ultima volta che la vidi. Era venuta direttamente da Los Angeles a Washington in aereo. Aveva noleggiato una macchina all’aeroporto ed era venuta direttamente a casa nostra. Nei due anni passati a Washington non ebbi visite di nessuno dei suoi parenti. Lui stesso diceva che erano lontani e molto presi dalle loro faccende e via dicendo. Io ero più tranquilla senza qualcuno lì a controllarmi. A volte scrivevo una lettera altre volte lo facevano loro. Mandai la foto di mia figlia e loro di rimando il regalo per il compleanno della bambina. L’ultima foto che inviammo fu quella di mia figlia ad un anno e da allora non ricevemmo più loro notizie.
Poi arrivò quella ragazza. Salutò e si presentò con garbo. Mi chiese se mi annoiavo tutta sola. “Oh che bello!” e “che bella bambina!” e così via. Io stavo trafficando con la lavatrice che si era rotta. Mi venne ad aiutare senza troppi complimenti. Riuscimmo ad aggiustarla, poi, dopo aver buttato i panni nel cestello, ci sedemmo e lei cominciò a confidarsi.
Erano fidanzati prima che lo richiamassero al fronte in Corea e, finita la guerra, lui non era più tornato a Los Angeles. Aveva trovato lavoro a Washington. “Solo Dio sa cosa è accaduto loro in Corea che quando tornano accettano lavori simili”, disse lei. “Che lavori?” chiesi io. Si meravigliò che non sapessi ancora nulla sul conto di mio marito. “Non è poi un lavoro vergognoso –disse-, ma è per questo motivo che tutta la famiglia lo ha abbandonato, senza sentire ragioni”. Io, intanto, avevo il cuore che friggeva al pensiero che fosse un boia, l’addetto alla camera a gas oppure alla sedia elettrica. Alla fin fine anche questi possono passare per lavori legali, ma quello proprio no! Svenni quando lo seppi. Tanto che la ragazza si alzò e, aperta la credenza, tirò fuori la bottiglia di whisky, ne versò un bicchiere per me e uno anche per sé, e giù a confidenze. Lui era il terzo fidanzato che perdeva: uno era morto in Corea, il secondo era ancora in Vietnam, e questo che è conciato così. Non si spiegava perchè quelli che tornavano vivi si scegliessero lavori strani, impazzissero del tutto o divenissero ladri e assassini. Non capiva come avessi fatto fino ad allora a non intuire quel che faceva mio marito. Eppure non ero la figlia di una serva, una trovatella o un’orfanella. Ero diplomata, avevo dei genitori, ero bella ecc. …
Si, grazie, un altro ancora. Ma i vostri ospiti non arrivano. Ho la gola davvero secca. Il problema era che la ragazza mi stava diventando simpatica. Era una svampita acqua e sapone. Da sette anni viveva a Los Angeles in cerca di un marito o di diventare una stella del cinema. Poi ci alzammo entrambe e dopo aver steso i panni e messo mia figlia ed il passeggino sul sedile posteriore della macchina ci dirigemmo verso il posto di lavoro di mio marito. È che io non ci potevo ancora credere e finchè non vedevo coi miei occhi non lo avrei fatto. Per prima cosa andammo nel suo ufficio. “Salve!” [- ci dissero-], “quali sono le vostre esigenze?”, “ecco le foto dei parchi”, ” la varietà degli alberi” e “i prati”. Se non avessi saputo che posto era avrei pensato che ci costruissero villette per la luna di miele. Tutto era riportato con precisione sulla mappa. Fu, poi, un seguire di spiegazioni sulle dimensioni, la lunghezza, le cerniere, le maniglie sui due lati, la corona di fiori, il tipo di legno, il drappo, le differenti cerimonie, il trasporto in carrozza, quanti cavalli da tiro o, in alternativa, la macchina, più economica e di diversi tipi. Si passò poi a parlare degli accompagnatori, il cui compenso variava a seconda di quanto impegno ci avrebbero dovuto mettere e al posto di quale parente avrebbero dovuto presentarsi e, infine, del loro abbigliamento e della chiesa. È difficile per me descrivere quanto per voi comprendere, [lo so!]
L’ufficio era invaso da mucchietti di opuscoli pubblicitari, accendini e fazzoletti di carta che riportavano le foto con le scritte del tipo “il sonno eterno nel velluto” oppure “il tal parco è la copia [esatta] del Giardino del Paradiso”. Gli impiegati ci accerchiarono chiedendoci se volevamo un posto unico o una familiare, cioè per più persone. “Con la familiare –dissero- v’è un risparmio del cinquanta per cento ed è possibile pagare a rate”.
Stavo scoppiando. Non ci potevo credere che mio marito facesse quel mestiere. Aveva detto avvocato “lawyer”! Proprio così! Alla fine ci presentammo e chiedemmo dove lavorasse mio marito. Per non destare sospetti dicemmo che la ragazza era sua sorella, venuta da Los Angeles per un affare urgente e costretta a ripartire quel pomeriggio stesso, e che io non sapessi dove lui prestasse servizio quel giorno. Uscimmo e andammo verso il luogo indicatoci. Finchè non lo vidi da dietro la fila dei bossi non ci credetti.
Aveva le maniche dell’abito da lavoro arrotolate e misurava il prato con il metro. Dopo averne contrassegnato i quattro lati metteva in moto il martello pneumatico e, una volta scavato tutto intorno, passava a misurare l’appezzamento successivo. A questo punto intervenivano due uomini di colore che toglievano con cautela le zolle d’erba per caricarle in un camioncino. Fatto questo, mio marito tornava a trivellare nuovamente la terra, mentre i due uomini di colore raccoglievano le nuove zolle e le gettavano in un altro camion. Mio marito continuava a scendere e risalire e al suo seguito uno degli altri due. Avevano tutti e tre gli stessi abiti e lavoravano con la massima cura e precisione. Stavano attenti a non sprecare una sola zolla e a non sporcare il prato attorno.
Li osservammo così, per circa mezz’ora, sedute nella macchina parcheggiata sul ciglio della strada alberata. Piangevamo a dirotto mentre guardavamo uscire e passare accanto alla nostra macchina i camion carichi di terra e di erba ed entrare quelli carichi di bare nuove. Le disponevano in fila sul prato in attesa che finissero gli scavi. Erano gli stessi giorni in cui arrivavano [i corpi dei] soldati dal Vietnam. A gruppi di duecento o trecento al giorno. Quanto lavoro! Oltre alla squadra di mio marito vi erano altri dieci o dodici a scavare. Ognuna in un lato del parco. E che parco! Si chiama “Harlinghton”. Dovete averne sentito parlare! V’è una sola Capitale degli Stati Uniti d’America e un solo Harlinghton. È famoso in tutto il mondo. Anzi, Harlinghton è famoso quanto gli stessi Stati Uniti. Fu quanto appresi dalla ragazza quello stesso giorno. Il luogo è famoso sin dai tempi delle Guerre di Indipendenza. Anche Kennedy è lì e la gente lo va a visitare. Ha anche un picchetto d’onore e un cerimoniale per il cambio della guardia!
[Il parco] era ricoperto da prati, con dossi arrotondati e zone delimitate da alberi e bossi. Ad ogni persona corrispondeva un “contrassegno” in marmo bianco con su scritto il nome e il grado. I colonnelli da una parte, i maggiori da un’altra e i soldati semplici, invece, da questa parte. “Guarda! –disse la ragazza- proprio secondo la gerarchia militare!”.
Io parlo, ma non so se mi seguite.
“Tutti gli sforzi di noi americani –disse lei- si concludono a Harlinghton!”
Aveva il cuore gonfio: sette anni di attesa e tre fidanzati persi. Mi mostrò il luogo dove ne erano sepolti due , poi la tomba di Kennedy, il cambio della guardia e, finalmente, ce ne andammo. Non avevo voglia di star lì a guardare. Pranzammo fuori e poi andammo al cinema, ma non capii molto della trama perchè mia figlia si lamentava in continuazione. Alle quattro del pomeriggio mi accompagnò a casa e se ne andò. Aveva preso un biglietto scontato di andata e ritorno ed era costretta a partire quello stesso giorno. Prima di allontanarsi mi disse: “hanno avuto così tanto a che fare con questo tipo di mondo in guerra che ora non si ricordano più del nostro!”
Quando mio marito rincasò, la sera dal lavoro, affrontai l’argomento. Dopo la partenza della ragazza mi ero messa a riflettere ed a telefonare ai miei amici e conoscenti iraniani. Mi ero ricordata di quella volta in cui, con tanta ostinazione, mi prese e mi portò a vedere Masgar Abad. Era prima che ci sposassimo. Sembrava che mi stesse portando al Museo Golestan. A quei tempi non sapevo cosa fosse Masgar Abad né dove fosse.
Ho già detto che se non fosse stato per lui io non avrei conosciuto molti posti della stessa Teheran!
Quel giorno io non sapevo [dove fossimo diretti] mentre l’autista del loro ufficio sì. Io facevo le veci dell’interprete. Lui poneva mille domande sugli usi ed i costumi di sepoltura. Io non sapevo nulla e l’autista, che era armeno, men che meno. Andò a chiamare uno dei custodi di Masgar Abad per fargli le domande che io dovevo tradurre. Allora non capii affatto il motivo di tutto quell’interrogatorio. Ricordo però che mia nonna prese proprio questo episodio a pretesto per brontolare: “Ma che senso ha? –diceva-, un uomo senza fede, chiede la mano della figlia d’altri per portarla poi a Masgar Abad?”.
Rammento che quel giorno oltre a lui era venuto anche un altro americano che, alle spiegazioni del custode da me tradotte, disse a mio marito: “Vedi che non usano le casse? Non ci sono da fare grandi investimenti sull’avvolgimento di un pezzo di stoffa!”.
Conoscevo quel tipo. Era il consulente della Organizzazione per lo Sviluppo. Mi sembra che si fossero accordati di parlarne direttamente con l’organo competente. A quel tempo non capivo niente di quel che accadeva. Mi ricordo solo che quello stesso giorno in cui capirono che da noi non si usano le bare mi raccontò che da loro, invece, prima di mettere [i corpi] nelle casse, li acconciano come si fa con la sposa e lo sposo e, se sono vecchi, mettono loro del cotone in bocca e arricciano i capelli… “sono tutti costi aggiuntivi!”, mi disse.
La sera stessa, a cena, raccontai tutto a mia nonna che si adirò e cominciò a brontolare. Fu così che il giorno di nozze se ne andò a Mashad.
Voi cosa avreste fatto con una figlia di vent’anni ed un pretendente americano, bello, ricco e rispettato? Come si fa ad essere dubbiosi? E poi che c’entravo io con Masgar Abad? Ne doveva passare del tempo perchè, come mia nonna, cominciassi a pensare a posti simili.
Anche quando ero a Washinghton accadeva qualche pomeriggio che, al rientro dal lavoro, mio marito brontolasse sul fatto che i neri stanno fregando loro il lavoro. Anzi, mi ricordo che mi venne anche da chiedergli se anche i neri potessero emettere verdetti! Ero convinta, fino alla fine, che “lawyer” significasse giudice, avvocato o qualcosa di simile o che avesse a che fare con l’amministrazione della giustizia.
In ogni caso, appena rientrò [quel pomeriggio], gli posi in mano il suo whisky, ne versai uno anche per me, mi sedetti di fronte a lui e affrontai l’argomento. Avevo fatto tutte le mie riflessioni e tutte le mie consultazioni.
Uno degli amici iraniani mi disse al telefono: “non c’è da meravigliarsi, sono tutti di questo mestiere e lo fanno per l’umanità intera!”.
“Non è il momento di far propaganda politica!”, gli dissi, consapevole del fatto che si riferiva più ad un caso personale. Gli avevano annullato la pratica. Non aveva il diritto di partire, né quello di restare. Stava cambiando la propria cittadinanza per prendere quella egiziana. Mi sembrò fuori luogo dirgli: “se è così, perché sei rimasto negli Stati Uniti?”.
Un altro ancora, un giovane di bell’aspetto, che più volte ho rimpianto di non aver potuto sposare mi disse: “Ma dai, secondo me ti è passata la voglia di stare in America!”. Ecco cosa mi disse! E, cosa faceva lui nella vita, lo sapete? Assolutamente niente. Aveva trovato due donne americane che lo mantenevano.
No, non sono ubriaca e non sono in vena di maldicenze.
Una era insegnante e l’altra faceva la hostess. Ognuna con la propria abitazione.
Il giovanotto passava tre giorni da una e quattro dall’altra. Una vita da re. Non studiava, non guadagnava e né [i suoi] gli mandavano del denaro. Viveva come gli sceicchi del Golfo. Portava con insistenza gli altri iraniani a casa propria per far loro provare invidia di quella sua vita, come se fosse nel giusto. Fu così che a ventitrè anni ho dovuto prendere per mano mia figlia e ritornare.
Certo che era proprio un bel tipo! Non avevo fatto in tempo a riagganciare la cornetta che il telefono aveva squillato di nuovo. Era un giovane iraniano, amico del ragazzo di prima. Studiava giurisprudenza. Aveva saputo dei miei problemi e voleva rendersi utile. Gli chiesi di venire a casa mia. Sedemmo e, per circa mezz’ora, studiammo la situazione da ogni prospettiva fino ad arrivare ad una decisione.
Quando rientrò mio marito io ero tranquilla e sapevo cosa volevo. Rimanemmo seduti a discutere e a bere whisky fino alle dieci di sera. Gli dissi che ormai non avevo più intenzione di restare negli Stati Uniti. Lui volle sapere a tutti i costi chi me lo avesse detto, ma io non svelai nulla. Credeva fossero stati i suoi genitori, sua sorella o i suoi fratelli. Ed io a dire: “No!”, “No,e poi no!”.
Per quanto insistette ad uscire per fare due passi, ad andare al cinema o al club e risolvere la questione l’indomani non mi lasciai convincere. Detta l’ultima parola me ne andai nella stanza della bambina e, chiusa la porta a chiave, caddi come un titano.
A dire la verità ero davvero ubriaca. Proprio come ora.
L’indomani andammo in tribunale. Il buffo è che anche il giudice insisteva a dire che quello era un lavoro come tanti altri e non v’era alcuna ragione valida per chiedere il divorzio. Dissi: “signor giudice, se voi aveste avuto una figlia l’avreste data in moglie ad un uomo simile?”, “spiacente –rispose- purtroppo non ho una figlia!”. “E una nuora? “, chiesi io. “Sì!” disse. “Se vostra nuora venisse un domani a dirvi che suo marito, che fino ad allora lei pensava facesse l’insegnante, in realtà fa questo mestiere e le ha mentito?”.
Fu a questo punto che mio marito si intromise e non mi lasciò più parlare. Non voleva che venissero a sapere che aveva mentito. Fu così che acconsentì. Firmò il documento per gli alimenti di mia figlia e pagò anche il rimborso del biglietto di ritorno che gli feci tirar fuori lì su due piedi.
Sì, insomma, fu così che mi sposai un americano.
Un altro bicchiere di quel whisky, per favore. Non si capisce perchè i vostri ospiti tardino a venire…oh, ma…non mi direte che, in qualche modo, quella ragazza mi ha fatto le scarpe? La sua “girlfriend” intendo, no eh?….>>

Ringrazia Cristina Bianciardi per averci mandato la sua traduzione.

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